Title | Marcel in Tolomea, ovvero: la "Recherche" secondo Samuel Beckett |
Publication Type | Journal Article |
Year of Publication | 2018 |
Authors | Beretta Anguissola, A. |
Secondary Title | Quaderni Proustiani |
Volume | 12 |
Issue | 1 |
Pagination | 9-24 |
Date Published | 12/2018 |
Publisher | Padova University Press |
Place Published | Padova, IT |
ISSN Number | 2281-9037 |
Keywords | Beckett, Inferno, Proust, relativismo negativo, Schopenhauer |
Abstract | Ripercorrendo le tappe del contrastato e ambivalente rapporto che Beckett intrattenne con l’opera di Proust (ora ammirata, ora letta con insofferenza e investita di critiche, come testimoniano i marginalia degli esemplari proustiani conservati all’Università di Reading), l’articolo mostra come il saggio che l’autore di Godot dedicò alla Recherche nel 1930 risenta profondamente della lettura che Beckett andava effettuando, in quegli stessi anni, dell’operadi Schopenhauer: sorta di deus absconditus di quel celebre studio. Ed è anche in virtù di quella significativa mediazione che Beckett guarda al lato più infernale della Recherche, quello che non si riscatta nell’arte e nel quale il tempo lascia irrisolti tutti gli interrogativi. |
URL | http://quaderniproustiani.padovauniversitypress.it/2018/1/1 |
DOI | 10.14658/PUPJ-QP-12-1 |
Full Text | Marcel in Tolomea, ovvero: la Recherche secondo Samuel Beckett1 Alberto Beretta Anguissola Università degli Studi della Tuscia Prendiamo il più ostinato degli ottimisti, facciamogli fare un pellegrinaggio attraverso gli ospedali, i lazzaretti, gli ambulatori chirurgici: attraverso le prigioni, le camere di tortura e gli ergastoli; sui campi di battaglia, e sui luoghi di supplizio; schiudiamogli i tetri tuguri ove la miseria si nasconde agli sguardi dei curiosi indifferenti: facciamolo entrare nella prigione del conte Ugolino, nella torre della fame; egli finirà, senza dubbio, per comprendere di che razza sia questo meilleur des mondes possibles. Del resto, da dove prese Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale? Tuttavia, ne fece un inferno in piena regola. Ma quando si trattò di dipingere il cielo e le sue gioie, allora… allora si trovò a lottare con difficoltà insuperabili, perché il nostro mondo non gli forniva punto materiali adatti. (Schopenhauer 1969, § 59, 366) Così nel lontano 1818 Schopenhauer scriveva nella quarta parte de Il mondo come volontà e rappresentazione. Su questa identificazione tra mondo e inferno egli insisterà nuovamente molti anni dopo, nel secondo volume dei Parerga e paralipomena, aggiungendo una precisazione importante: «Il mondo è appunto l’inferno e gli uomini sono, da una parte, le anime tormentate e, dall’altra, i diavoli»2. Qualcuno si sarà già chiesto: «Ma che c’entra Schopenhauer in un discorso sul modo con cui Samuel Beckett ha interpretato il romanzo di Proust?». Schopenhauer c’entra per vari motivi. Inanzitutto per una concomitanza temporale. Beckett ha cominciato a leggere seriamente (due volte) la Recherche tra l’estate del 1929 e il 19303, in vista della redazione di un saggio per una collana della casa editrice inglese Chatto & Windus, quando si trovava a Parigi come lettore di inglese presso l’École Normale della rue d’Ulm. In quel periodo (estate 1929), scrisse all’amico Thomas McGreevy: «I am reading Schopenhauer». E prosegue «Tutti ridono della cosa4. Beaufret e Alfy ecc. Ma io non leggo filosofia, né mi importa se ha ragione o torto, o se è bravo o scarso come metafisico. Una giustificazione intellettuale dell’infelicità – la più grande che sia mai stata tentata – vale l’esame di uno più interessato a Leopardi e Proust che a Carducci e Barrès» (Beckett 2017, 219)5. In agosto annuncia a McGreevy: «Adesso affronterò i suoi Aforismi sulla saggezza nella vita,che Proust tanto ammirava per la loro originalità e garanzia di vaste letture trasformate. Il capitolo sulla musica nel Mondo come volontà e rappresentazione è divertente e si addice a Proust che certamente l’ha letto». E a questo punto Beckett ricorda all’amico un episodio della Recherche in cui si parla proprio della musica secondo Schopenhauer (Proust 1989, RTP IV, 569). Dal prezioso lavoro dei biografi apprendiamo che nella vita di Beckett ci sono state tre successive “schopenhaueriti”, se ci è consentito il neologismo clinico. La prima è stata, come si è visto, in coincidenza con la redazione del Proust, che ne fu condizionata in modo determinante. Una ricaduta si verificò nel settembre 1937, quando lo scrittore, tornato provvisoriamente in Irlanda, fu colpito da un’«influenza gastrica» che lo costrinse a letto per parecchi giorni, come confida in una lettera del 21 settembre 1937: Da malato – egli scrive a McGreevy – l’unica cosa che riuscivo a leggere era Schopenhauer. Tutto il resto non ha fatto che confermare la mia sensazione di malessere. Era molto curioso. Come se a un tratto si aprisse una finestra sull’aria viziata. Ho sempre saputo che per me è fra i più importanti, e cominciare a capire perché questo accade è un piacere più reale di qualunque altro provato da tempo. Ed è anche un piacere trovare un filosofo che può essere letto come un poeta. (Beckett 2017, 399) Infine, va segnalata una terza deep immersion schopenhaueriana in quella che potremmo chiamare la “terza età” di Beckett, cioè tra gli anni settanta e ottanta, come dimostra il cosiddetto «Sottisier Book», un quaderno di appunti e riflessioni compilato in quegli anni. Insomma, è il caso di dire che anche in campo intellettuale i primi amori non si scordano mai. L’episodio più divertente, stando a quanto racconta Anthony Cronin nel suo saggio a carattere biografico The Last Modernist, avvenne nel 1971, quando Beckett si trovava a Berlino per dirigere una rappresentazione di Finale di partita. In una delle ultime prove, decise di sostituire il cane di peluche che il paralitico Hamm, seduto, tiene sulle ginocchia. Fino ad allora, durante le prove, era stato uno «spitzdog» (cioè, grossomodo, un volpino), ma Beckett volle che fosse invece un barboncino. Perché? Perché Schopenhauer amava più di ogni altra cosa o persona il suo barboncino Atma (Cronin 1996, 555)6. È interessante, a questo proposito, anche il racconto che troviamo nella prima biografia di Beckett, quella scritta da Deirdre Bair: «Fin dai loro primi incontri Beckett si sforzò di far capire a Lowenfels che non avrebbe mai sconfessato Schopenhauer, come invece Lowenfels lo sollecitava a fare. Le idee di Schopenhauer divennero più avanti il fondamento filosofico di gran parte del pensiero di Beckett, ma a quell’epoca [1929-30] egli era ancora un po’ confuso» (Bair 1990, 97). La tecnologia informatica ci consente ora di penetrare nella stanza parigina dell’École Normale della rue d’Ulm, dove il ventitreenne Samuel sta leggendo uno dopo l’altro i 16 volumi della prima edizione della Recherche. Senza bisogno di viaggiare nel tempo o nello spazio7, possiamo assistere, per così dire in diretta, alle sue reazioni, testimoniate dai commenti scritti, con penne e matite nere a punta sottile o con una grossa matita blu, nei margini laterali dei libri. Possiamo anche verificare il suo maggiore o minore apprezzamento per ciò che leggeva, a seconda dell’intensità delle sue sottolineature. Un sintomo inequivocabile dell’acuta schopenhauerite in atto è alla pagina 183 del volume contenente la prima parte di Sodome et Gomorrhe II(RTP III, 157). Siamo all’inizio del secondo soggiorno a Balbec. Una memoria involontaria atipica ha provocato non felicità, come in altri casi, ma un dolore atroce: la riscoperta improvvisa e devastante della morte della nonna. Dolorosa sì, ma preziosa perché mette il Narratore in contatto con la verità. Tutto ciò è stato reso possibile, scrive Proust, perché l’intelligenza e la volontà sono state «momentanément paralysées». E qui, mescolando il tedesco e l’inglese, Beckett ha scritto: «Wille, will to live [instinct]», che è come dire: «Schopenhauer aveva ragione!». Nel Proust egli afferma che queste sono «le pagine più grandi che Proust abbia mai scritto» (Beckett 2004, 30)8. Nel secondo volume delle Jeunes Filles en fleurs, due volte Beckett nei margini ha scritto «tragic», come per dire che in quelle pagine di Proust era tangibile la stessa Weltanschauung del Welt als Wille und Vorstellung. La prima volta a proposito dell’impossibilità assoluta di comunicare nella sincerità con Gilberte; la seconda volta a commento della frase «Mais le bonheur ne peut jamais avoir lieu» (cfr. RTP I, 601 e 613). Nel saggio su Proust, Schopenhauer è un po’ come il Dio nascosto di Pascal (e di Isaia): è sempre presente ma si lascia vedere o intravedere solo poche volte. In un contesto in cui questo esplicito riferimento è alquanto superfluo, Beckett ci ricorda che Schopenhauer chiamerebbe «oggettivazione della volontà dell’individuo» quella che altri chiamano «proiezione della coscienza dell’individuo» (p. 18). Deriva a mio parere da Schopenhauer non solo l’idea che la realtà profonda sia dolorosa e negativa, ma anche il carattere irrazionale e in qualche modo violento di questa «Volontà» che sta nascosta dietro il «velo di Maia». Al di là delle esplicite prese di distanza di Proust da Nietzsche, oserei dire che Beckett intuisce la presenza di un certo grado di niccianesimo nello schopenhauerismo di Proust. Egli è stato il primo a segnalare la presenza di Dioniso nel comportamento delle jeunes filles en fleurs a Balbec. Per il loro modo di agire un po’ selvaggio e maleducato, esse formano, a suo parere, «un’orgiastica banda di Baccanti in bicicletta»9 (p. 35). Più avanti lo scrittore sottolinea il fatto che la visione tragica presente nella Recherche (egli parla, ad esempio, di una «tragedia di Albertine», p. 34) si colloca al di là del giusto e dell’ingiusto perché la colpa che deve essere espiata è a monte di qualsiasi azione umana. L’unico vero “peccato originale” consiste infatti nell’essere nati. E qui (p. 48) vengono citati due versi tratti da La vita è sogno di Calderón de la Barca: Pues el delito mayor Del hombre es haber nacido. Schopenhauer non è nominato, ma la fonte di tutto ciò è certamente il paragrafo 51, nella terza parte del Mondo,dove sono citati questi stessi versi. Ed è molto interessante osservare il corto circuito che si creerà una ventina d’anni dopo con alcune battute che si scambiano Vladimiro ed Estragon in Aspettando Godot: VLADIMIRO: E se ci pentissimo? ESTRAGON: Di cosa? VLADIMIRO: Be’… (Cerca) Non sarebbe proprio indispensabile scendere nei particolari. ESTRAGON: Di essere nati? (Scoppia in una gran risata […]) In una delle ultime pagine, Beckett ci spiega, in modo alquanto esoterico, che «la stasi proustiana è contemplativa, un puro atto di comprensione privo di volontà, l’“amabilis insania” e lo “holder Wahnsinn”. E sarei tentato di dire: “Chi ha capito alzi la mano!”». Per fortuna qualche bravo annotatore ci spiega che bisogna andarsi a (ri?)leggere il paragrafo 36 del Mondo: «Che genio e follia abbiano un lato in cui si toccano è un’osservazione che venne fatta più d’una volta; e anche l’ispirazione poetica fu detta una specie di follia; amabilis insania la chiama Orazio (Od. III, 4), e Wieland, nell’introduzione all’Oberon, la chiama anch’egli holder Wahnsinn (amabile follia)» (Schopenhauer 1969, 229). Qui Schopenhauer è un dio nascosto. Poche righe più avanti invece è un Dio visibile, quando si passa a contrapporre la sua concezione della musica a quella di Leibniz. Ma, soprattutto, a lui Beckett riserva l’enigma finale. Nel Settimino di Vinteuil – egli scrive – si manifesta l’«invisibile realtà che condanna la vita del corpo sulla terra quale un pensum e rivela il significato della parola defunctus» (p. 65). Così finisce il saggio. Chi ha capito? Anche qui ci salvano gli annotatori che rinviano a una lettera di Beckett a McGreevy e ad una pagina del secondo volume dei Parerga e Paralipomena. La lettera è del 5 agosto 1930: «Schopenhauer dice che defunctus è una bella parola – purché uno non si suicidi. Potrebbe aver ragione» (Beckett 2017, 36). Dove lo dice? Nel capitolo XII: «La vita è un penso da assolvere faticosamente, poco per volta: in questo senso defunctus è una bella espressione» (Schopenhauer1983, 392). Nicholas Zurbrugg, autore di un ampio e molto dettagliato studio intitolato Beckett and Proust, depreca il fatto che Beckett abbia letto Proust attraverso degli occhiali troppo schopenhaueriani. Considera tutto ciò un «bad case of intertextual indigestion». Rimprovera all’autore di Godot di aver «read rather too much Schopenhauer, and rather too little of À la recherche du temps perdu», il che lo avrebbe spinto a darci una caricatura di Proust «as a pessimistic sage exposing negative relativism». Il saggio di Beckett «sistematically misrepresents Proust’s vision by reducing it to Beckettian terms». Però, a parte queste ed altre esagerazioni di un’ingenuità tipicamente anglosassone, la tesi di Zurbrugg non è poi del tutto priva di senso. Secondo lui, Beckett coglie inizialmente molto bene la molteplicità ed intrinseca contradditorietà dualista dell’antropologia proustiana, ma poi sceglie di descrivere soltanto una faccia della medaglia, quella negativa, lasciando il compito di illustrare la faccia positiva al coro quasi unanime di tutti gli altri critici (Zurbrugg1988, 103, 105, 129, 166-7, 171). Per completare il triangolo Schopenhauer/Proust/Beckett, occorrerebbe forse spendere qualche parola per dimostrare quanto lo scrittore francese sia stato anche lui influenzato dall’autore del Mondo. Ma su questo tema è già stato versato molto inchiostro e rinvierei volentieri al mio Proust inattuale o ai libri di Anne Henry (1983, 1988). Vorrei soltanto aggiungere un’osservazione. Molti lettori hanno apprezzato la grande “originalità” della tesi paradossale e anticonformista illustrata da Proust nella prefazione alla traduzione di Sésame et les Lys: se la lettura resta pura degustazione passiva e non si trasforma in creazione, fa più male che bene. In realtà, di originale c’è ben poco. Proust sta letteralmente plagiando Schopenhauer, senza citarlo, come fanno certi laureandi imbroglioni. Si veda il paragrafo 291 nel capitolo XXIV del secondo volume dei Parerga e paralipomena. Per quanto riguarda le opere di Beckett – sia teatrali sia narrative – è una cosa scontata che in esse la condizione umana somigli molto a quella dei dannati nell’Inferno dantesco. Per quanto invece riguarda Proust, con l’aiuto delle indicazioni relative alle parole enfer e infernal nel sempre prezioso Vocabulaire de Proust di Étienne Brunet, possiamo affermare che, nella Recherche,le similitudini con l’inferno scattano soprattutto in due casi: per descrivere le sofferenze della gelosia (o di Swann, o di Saint-Loup o del Narratore) oppure per suggerire qualcosa di equivalente al mondo dell’omosessualità sia maschile sia femminile. Il primo è un inferno soggettivo, visto da dentro; il secondo oggettivo, visto da fuori. Charlus può anche ottenere di tanto in tanto qualche appagamento nei sentimenti o nei piaceri ed essere quindi, tutto sommato, soddisfatto di sé, ma ciò non annulla, per lo scrittore, la condizione oggettivamente infernale della sua realtà. Come esempio di inferno/gelosia sceglierei un passaggio della Prisonnière (RTP III, 588); per illustrare il tema inferno/degradazione citerei invece il brano famoso che comincia così: «Le poète est à plaindre, et qui n’est guidé par aucun Virgile, d’avoir à traverser les cercles d’un enfer de soufre et de poix […]» (RTP III, 711). Ciò detto, lasciamo perdere i dettagli e puntiamo sulle cose essenziali. L’interpretazione beckettiana della Recherche è in assoluto la più “negativa”, la più – potremmo dire – “infernale”. E, proprio per questo, a mio parere, è la più affascinante (e forse anche la più intelligente)10. La dolorosa relazione tra il Narratore e Albertine è etichettata come «Tolomea», che è una delle zone dell’Inferno in cui Dante colloca le colpe e quindi i castighi più gravi. Nella Tolomea, se non ricordo male, sono puniti i traditori di qualcuno che di loro si fidava. Nella concezione dell’amore di Proust c’è, secondo Beckett, qualcosa di “diabolico”: «In tutta la letteratura – egli scrive – non esiste analisi di quel deserto di solitudine e di recriminazione che gli uomini chiamano amore proposta e sviluppata con tale diabolica mancanza di scrupoli» (p. 40). Il saggio di Beckett ha avuto, a partire dall’edizione Sugar del 1962, varie traduzioni italiane e varie ristampe, ed è quindi a disposizione di tutti con modica spesa. Sarebbe pleonastico farne qui un’analisi critica approfondita. Mi limito a ricordare brevissimamente quelle che sono, secondo me, le osservazioni più originali di Beckett, seguendo l’ordine delle pagine. Inanzitutto vanno segnalati i pregevoli (e ormai diventati sempre più rari in ambito internazionale) riferimenti a scrittori italiani: Leopardi (la poesia A se stesso è citata a p. 1711), Dante12, De Sanctis13, d’Annunzio14. Merita un applauso il paradosso secondo cui «Proust aveva una cattiva memoria» (p. 24) e questo gli ha permesso di infondere nelle sue memorie involontarie un fascino che ci commuove, giacché «la persona con una buona memoria non ricorda niente perché non dimentica niente». Beckett non ha paura di attribuire grande importanza alla dimensione “religiosa” dell’ispirazione proustiana. Non teme di essere scambiato per un “baciapile”. L’Adoration perpétuelle è, secondo lui, «un’azione sacra» con «elementi di comunione» (p. 28); il Narratore vi compie «un’esperienza religiosa nel solo significato intelligibile di questo termine, al tempo stesso un’assunzione ed un’annunciazione» (p. 49). Anche i marginalia dei volumi presenti all’Università di Reading confermano questa lettura: nel modo con cui Proust descrive la Sonata e il Settimino di Vinteuil c’è, secondo Beckett, qualcosa di “religioso”. Nel secondo volume di Du côté de chez Swann, alla p. 187 (RTP I, 342), accanto alla frase «Comme si les instrumentistes, beaucoup moins jouaient la petite phrase qu’ils n’exécutaient les rites nécessaires […]», Beckett ha scritto «religion as a revelation». Nel secondo volume della Prisonnière, il Narratore, ascoltando il Settimino (RTP III, 759-760), elabora mentalmente un confronto tra questo capolavoro e la precedente Sonata (RTP III, 72). In entrambe le opere – osserva Proust – è presente un atteggiamento di preghiera: Al margine, Beckett ha scritto: «Religious experience: comparison, participation, art». L’autore di Godot è stato il primo ad accorgersi del fatto che la conclusione della Recherche non è tutta in chiave positiva. È vero che l’ultima raffica di memorie involontarie (pietra mal squadrata, cucchiaio contro piatto, tovagliolo, acqua nei tubi, François le Champi) apre la strada ad una vittoria contro il Tempo e contro la Morte in una prospettiva di eternità e quindi di “salvezza”, ma è anche vero che, finito il concerto, il Narratore è costretto a prendere atto della vittoria del Tempo (e della Morte) perché tutte le persone che aveva frequentato o amato appaiono ora invecchiatissime, irriconoscibili e sull’orlo della tomba. È questo “trionfo della morte” il vero “Tempo ritrovato”, ragion per cui, come scrive Beckett con un altro paradosso geniale, «se il titolo è un buon titolo, la scena della biblioteca è un anticlimax» (p. 53). Il significato ultimo del romanzo è dunque un gigantesco punto interrogativo senza risposta. Coerentemente con quella che sarà negli anni successivi l’ispirazione della sua narrativa e del suo teatro, Beckett già in Proust appare allergico ad ogni visione “in positivo”. Di qui la polemica contro la tesi del filologo tedesco Curtius, secondo cui quello di Proust sarebbe un relativismo positivo. Scriveva Curtius nel 1925: «Relativismo vale per noi come sinonimo di “scetticismo”. “Tutto è relativo” viene inteso come sinonimo di “nulla vale”. Se vogliamo capire Proust, dobbiamo allontanare questo modo di pensare. Proprio l’opposto è vero. Che tutto è relativo vuol dire che “tutto vale”, che ogni prospettiva è legittima […]» (Curtius 1985, 95-96). Beckett contraddice quasi sgarbatamente l’illustre studioso: «Penso che l’espressione “relativismo positivo” sia un ossimoro». E dopo vari esempi e citazioni, conclude: «Questo relativismo è negativo e comico» (p. 60). Un’eco di questo dissenso ermeneutico si avrà cinque anni dopo in occasione del lungo viaggio di Beckett attraverso la Germania. Ad Amburgo ha incontrato – egli scrive a McGreevy il 28 novembre del 1936 – un’appassionata lettrice della Recherche che gli ha inviato una lunga lettera contenente un elenco di tutti gli errori del suo Proust. L’errore principale sarebbe questo: «Il mio Proust non è abbastanza ottimistico e intellettuale per i discepoli di Curtius. Vogliono rendere la sua “soluzione” un piccolo trionfo morale, la ricompensa dello sforzo e il coronamento di una vita di anelito, alla Goethe» (Beckett 2017, 80). Il nome di Curtius compare anche in uno dei marginalia dell'edizione conservata a Reading. Nel terzo volume delle Jeunes Filles en fleurs, alla pagina 151, il Narratore smentisce l’adagio «sbagliando si impara». Dopo aver riconosciuto i nostri errori di ottica potremmo arrivare alla conoscenza esatta di una persona, se questa conoscenza fosse possibile. Purtroppo, però, è impossibile, perché nel tempo necessario per correggere la nostra visione, quella persona è cambiata, e noi ora conosciamo qualcosa che non esiste più (RTP II, 29). Al margine Beckett ha scritto «Opposite to Curtius: view of Proust as a representative (anti-France) of positive relativism». Come già ho osservato, per Beckett il vertice della Recherche è una memoria involontaria che produce non gioia ma dolore, il che la dice lunga sul carattere antibergsoniano della sua lettura di Proust. L’autore di Fin de partie vede una sostanziale antitesi tra l’antropologia proustiana e quella di Bergson, secondo il quale la sfera interiore e profonda – la durée – è il luogo di un’eterna primavera, dell’evoluzione creatrice ecc… In effetti, le pagine cui Proust ha riservato il titolo Les Intermittences du cœur sono indimenticabili, stupende. È il brano della Recherche che più ci fa ricordare l’articolo che Proust scrisse sul «Figaro» nel 1907 sul caso Van Blarenberghe, il figlio che adorava sua madre, ma la uccide e si suicida, articolo che si concludeva con la domanda: «Mais quelle joie, quelle raison de vivre, quelle vie peuvent résister à cette vision? D’elle ou de la joie, quelle est la vraie, quel est “le Vrai”?» (Proust 1971, 159). Dalla corrispondenza si capisce che sulla divergenza tra Proust e Bergson, Beckett avrebbe voluto scrivere qualcosa da inserire alla fine del Proust. Il 14 ottobre 1930, dopo aver già spedito il dattiloscritto, chiede all’editore di rimandarglielo per delle aggiunte: «Mi consentireste di sviluppare il parallelo con Dostoevskij e di separare l’intuizionismo di Proust da quello di Bergson?» (Beckett 2017, 35). Purtroppo, però, tutto preso dalle lezioni al Trinity College di Dublino, non ne fece nulla. Qualche giorno dopo rispedì all’editore il manoscritto tale e quale. Peccato! Avremmo avuto una lucida analisi dell’antitesi tra la concezione del tempo di Bergson e quella di Proust molti anni prima dell’Espace proustien di Georges Poulet. Quanto a Dostoevskij, Beckett avrebbe voluto ampliare ciò che scrive in modo molto sintetico verso la fine del saggio: «Per impressionismo, in Proust, intendo la sua non logica esposizione dei fenomeni […]. Ci viene in mente la definizione che Schopenhauer dà del procedimento artistico come “contemplazione del mondo indipendentemente dal principio di ragione”. A questo proposito, Proust può venir accostato a Dostoevskij, il quale pone i suoi personaggi senza spiegarli». Beckett immagina l’obiezione di un lettore: «Ma Proust non fa altro che spiegare i suoi personaggi!». Risposta: «Li spiega in modo che essi possano apparire per ciò che sono: inesplicabili» (p. 61). Un altro aspetto alquanto originale del Proust è l’interpretazione sostanzialmente antimodernista della Recherche, il che stupisce da parte di colui che è stato definito «l’ultimo modernista»: «Il punto di partenza di Proust potrebbe essere situato nel simbolismo, o nei suoi dintorni […] Si allontana dai simbolisti, e va indietro verso Hugo. […] Egli è romantico nel suo modo di sostituire l’affettività all’intelligenza, nel suo opporre la testimonianza probante di uno stato affettivo particolare a tutte le sottigliezze dei riferimenti razionali […]» (pp. 56-57). Qui la “tendenza regressiva” di Proust è quasi presentata come un pregio. Del resto, il supermodernista Beckett non apparteneva alla schiera di coloro che, come la giovane Mme de Cambremer, si interessano solo alle avanguardie più “avanzate” e “progressive”. Sia in pittura, sia nella musica, sia in letteratura, lo scrittore irlandese amava con intensa partecipazione i maestri del passato (e anche i contemporanei, naturalmente). Mi colpisce soprattutto il suo sincero entusiasmo per le pièces di Racine. E qui vorrei aprire una breve parentesi. Qualcuno dovrebbe spiegare come sia possibile il fatto che la produzione letteraria e teatrale di Beckett (la quale certamente merita in pieno l’appellativo di “moderna”) possa avere le sue fondamenta e la sua sorgente in un libro pubblicato quando Napoleone Bonaparte e Ludwig van Beethoven erano ancora vivi. Le più significative elaborazioni estetiche di Beckett trovano la loro giustificazione nel Mondo. La sua celebre teoria secondo cui bisogna fare un buco nella lingua15 per andare verso il silenzio e verso un glorioso fallimento non è dopotutto che una variazione sul tema decadente/simbolista della verità profonda come dimensione inconoscibile, ineffabile, tema che deriva dal dualismo schopenhaueriano. È la domanda che fa a sé stesso chi legge con attenzione Fin de partie. L’impedimento beckettiano ad esprimere16 viene dalla crisi della società borghese nonché da Hiroshima e da Auschwitz, secondo la nota tesi di Adorno (1974), oppure viene dall’idea kantiana/schopenhaueriana del noumeno/volontà? Nel terzo volume delle Letters ce n’è una molto interessante indirizzata a Matti Megged, che viveva allora in Israele. Beckett la rimprovera perché lei fa confusione, a suo parere, tra la sfera dell’esperienza vissuta e quella dell’espressione letteraria. E spiega: Il problema è proprio quello sollevato da Proust nella sua campagna contro il naturalismo. La distinzione che egli fa tra il “reale” della condizione umana e il “reale ideale” dell’artista resta certamente valida per me ed è sempre bisognosa di essere rivitalizzata. Io capisco – nessuno, credo, capisce questo meglio di me – il legame tra l’esperienza e l’espressione e capisco la necessità di fallire in entrambe. Ma è il legame tra un ordine o disordine e un altro ordine o disordine di diversa natura e i due fallimenti sono essenzialmente dissimili come genere. Così, nel migliore dei casi, una vita vissuta nel fallimento non potrà essere che tetra, mentre non c’è nulla di più eccitante per uno scrittore e più ricco di non sfruttate possibilità espressive del fallimento ad esprimere.17 Come si vede, c’è quasi un’identità tra l’estetica di Proust (che – ricordiamolo! – muove dai simbolisti e va all’indietro verso Hugo) e quella di un Beckett ormai pienamente “maturo”. Nel Proust prevalgono gli elogi18, però dalla corrispondenza emergono riserve piuttosto pesanti nei confronti dello scrittore francese. È vero che la nostra fonte sono soprattutto le lettere a McGreevy, e sappiamo che tra i due si era instaurata un’amicizia un po’ goliardica e tardo-adolescenziale, in cui la gara era a chi la sparava più grossa, senza risparmiarsi oscenità e paradossi estremi, per cui occorre fare la tara su certe affermazioni. Resta il fatto che alcuni dei giudizi epistolari di Beckett pesano come macigni. Già nella lettera dell’estate 1929 non mancano le perplessità: Ho letto il primo volume di Du côté de chez Swann, e lo trovo stranamente diseguale. Ci sono cose incomparabili – Bloch, Françoise, zia Léonie, Legrandin – e poi dei passaggi di una pignoleria offensiva, artificiosi e quasi disonesti. Non so cosa pensare. Padroneggia a tal punto la sua forma che non di rado ne diventa schiavo. Alcune metafore accendono una pagina intera come un’esplosione di luce, altre sembrano tirate fuori nella più scialba disperazione. […] Mi pare che bevesse troppa infusione di tiglio. E quando penso che lo dovrò contemplare seduto sul suo cesso per 16 volumi! (Beckett 2017, 7) L’elaborazione del saggio fu per Beckett faticosa e in salita. Per varie settimane non riuscì a scrivere nulla. Confidò a McGreevy: «Non riesco proprio a farla questa roba del cazzo. Non so se cominciare dal fondo o dal principio – in altre parole, il buco del culo proustiano deve essere considerato come entrée o come sortie, libere in entrambi i casi?» (Beckett 2017, 28). Qualche giorno prima aveva scritto a Mc Greevy: «Non vedo l’ora di strappare i coglioni al critico e poetico cazzo proustiano. Adorava Ruskin e la contessa di Noailles e pensava che Amiel fosse un precursore! Scriverò una poesia anche su di lui, con i pantaloni color lavanda di Charlus in un pisciatoio gotico» (Beckett 2017, 23). Questo “odi et amo” nei confronti di Proust proseguirà negli anni successivi. Ad esempio, il 5 dicembre 1932, ecco una strana stroncatura: Rileggevo il primo volume del Temps retrouvé – Parigi durante la guerra e i piaceri e le opinioni di Charlus. Già non mi era piaciuto la prima volta e pensavo che fosse solo un riempitivo mal padroneggiato – evidentemente aggiunto e fuori tema. Ma stavolta non ho proprio potuto continuare a leggerlo. Uno spurgo di Balzac – e l’allusione alla paura fisica di Morel verso Charlus e la lettera di Charlus in cui confessa di aver progettato di assassinare Morel mi sembrano un Balzac allo stato puro. Poi, nel secondo volume – l’ultimo del libro19, certamente le prime 100 pagine sono un esempio di grande scrittura, di un livello così alto che non si può trovare nulla di paragonabile in nessun altro libro. Mi soddisfa sempre più ad ogni nuova lettura.20 In effetti, che nelle vicende di Charlus e Morel si senta puzzo o profumo (a seconda dei gusti) di Balzac (basti pensare a Vautrin/Lucien) è cosa alquanto vera, ma proprio per questo, a mio parere, quelle pagine sono strepitose. Del resto, questo côté balzacchiano di Charlus sembra essere stata un’idea fissa di Beckett. Il 20 febbraio 1935, scrive al solito McGreevy: «Immagino che il barone Hulot [uno dei principali personaggi della Cousine Bette] abbia avuto il suo peso nella realizzazione di Charlus» (Beckett 2017, 253). Non è solo nelle lettere molto confidenziali a McGreevy che Beckett “spara” le sue bordate contro Proust (frammiste a elogi entusiasti); egli espone le sue riserve anche in lettere più “ufficiali”. Nel febbraio 1954, Hans Naumann, che si interessava agli scrittori contemporanei irlandesi, gli scrive da Magonza ponendogli alcune domande sulla sua poetica, le sue letture e la sua vita. Una delle domande riguardava proprio il rapporto con Proust. Beckett risponde in francese che, dopo aver scritto il suo saggio, non ha quasi più riletto la Recherche. E aggiunge: «Sopporto male, tra le altre cose, la sua mania di voler ricondurre tutto a delle leggi. Credo di giudicarlo male»21. L’ambivalenza del suo atteggiamento verso la Recherche e verso il suo autore si rifletterà anche in un miscuglio di soddisfazione e disprezzo per il Proust. Ancor prima che il libro uscisse, sentì il bisogno di prenderne le distanze: «Il mio Proust sembra molto grigio e disgustosamente giovanile – quasi pomposo – tutt’al più arrabbiato. […] Mi sento dissociato dal mio Proust come se non mi appartenesse»22. Quando l’amico, che ha letto il libro, gli scrive una lettera piena di elogi, Beckett sembra sinceramente grato per i complimenti ricevuti, ma non può fare a meno di autocriticarsi: «Ho letto il mio libro velocemente e mi sono chiesto di cosa stessi parlando». E prosegue: mi è sembrato insipido, troppo astratto. «Da un punto di vista strettamente critico nulla potrebbe essere più “blafard” [smorto], ruvido, come l’ano di una Guardia Civile»23. Questa scarsa autostima per il Proust lo spinse, negli anni successivi, dopo aver raggiunto il successo soprattutto col teatro, a scoraggiare gli editori che volessero eventualmente ripubblicare il libro. Nel 1953, scrive a Barney Rosset che voleva farlo stampare negli Stati Uniti: «È gentile da parte tua voler pubblicare il Proust. Non sono però sicuro che sia una buona idea. È una cosa molto giovanile. Bisognerà indicare la data di composizione con grandi caratteri» (Beckett 2009 II, 643). Sempre a Barney Rosset, dal Marocco, il 9 aprile 1974, spiega che non vuole che sia pubblicata una raccolta dei suoi saggi critici (quello che poi, nel 1984, grazie a un ripensamento, sarà il volume Disiecta): «Nessuno di quegli scritti viene da un impulso mio proprio, ma sono stati tutti scritti controvoglia per mettere qualcosa in pentola e su richiesta degli amici. Persino il Proust fu una commissione […] di Chatto & Windus […], l’ho scritto nella prospettiva illusoria di una carriera accademica, imprecando e sgobbando. Io non ho nessuna abilità critica e tutta quella roba vale poco e merita di essere dimenticata» (Beckett 2009 IV, 366). A Lawrence Harvey, il 28 ottobre 1963: «Tutto il mio lavoro critico, compresi i saggi su Joyce e Proust, è stato fatto à mon corps défendant [controvoglia], il che può spiegare, se non scusare, il suo prevalente tono di aggressiva esagerazione» (Beckett 2009 IV, 577). Scrive inoltre a John Calder: «Assolutamente non voglio che il Proust sia pubblicato in Francia» (Beckett 2009 IV, 315)24. Nel saggio citato, Zurbrugg ci ricorda un dettaglio già illustrato da Deirdre Bair nella sua biografia di Beckett: un fortunato signore che vive a Dublino scovò per caso in una libreria una copia del Proust con parecchie annotazioni a penna. Esaminando la calligrafia, si scoprì che era proprio quella di Beckett, il quale, rileggendo sé stesso, non aveva potuto fare a meno di autoinsultarsi con giudizi del tipo: «Vomito di cane», «Gergo atroce», «Troppo astratto», ecc… (Bair 1990, 108-109). Poi, per un lungo periodo, il nome di Proust non compare più nelle lettere di Beckett, fino agli anni Settanta, quando ad Harold Pinter fu chiesto di scrivere la sceneggiatura del film tratto dalla Recherche di cui sarebbe stato regista Joseph Losey. Ben sapendo quanto Beckett fosse stato impregnato di Proust, gli fu chiesto qualche consiglio. Lo scrittore si schermì adducendo pretesti: non aveva più con sé il libro, ricordava poco. Ma un suggerimento lo dette: cominciare dalla fine, iniziare dal Temps retrouvé. E la sua idea fu accolta, come si vede dal volumetto Einaudi che ci consente di leggere, in traduzione, quella sceneggiatura (Pinter 1987). In una lettera a Pinter, del 31 novembre 1972, scritta per ringraziare dell’invio dello script, Beckett lo definisce «so finely devised» (così ben organizzato), e si scusa se, distratto da tanti impegni, non ha da dire nulla di «worth hearing» (che valga la pena di essere ascoltato). Ma aggiunge soltanto: «Mi fa tornare indietro al romanzo e all’idea che bisognasse cominciare dalla fine del Time Regained» (Beckett 2009 IV, 315). Tutto qui. Insomma: non sembra proprio entusiasta. Non sono quindi sicuro che a Beckett la sceneggiatura di Pinter e ancor più l’eventuale realizzazione da parte di Losey potessero piacere davvero. Sospetto che la sua reticenza dipendesse dal fatto che avrebbe preferito un Proust più tragico, più schopenhaueriano, meno asettico, più “infernale”. Forse però a Beckett non sarebbe piaciuta una conclusione così a senso unico in un articolo sulla sua lettura di Proust. Avrebbe preferito qualcosa di più vago, più incerto, più misterioso. Del resto sull’ultimissima pagina del secondo volume del Temps retrouvé, nell’edizione conservata a Reading, leggiamo alcune parole suggestive, interpretabili in vari modi, scritte con una grassa e grossa matitona blu. Potrebbero essere, in un certo senso, il sugo di tutta la storia: «Arabian nights of the mind. Thought – jellyfish of Spirit» (le Mille e una notte della mente. Pensiero – medusa dello Spirito). Questa sorprendente metafora secondo cui la Recherche somiglierebbe a una favolosa e orientaleggiante medusa spirituale a me sembra davvero bellissima. Bibliografia Adorno, Th.W. (1961), Tentativo di capire Finale di partita, in Th.W. Adorno, Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 267-308; edizione originale: Noten zur Literatur, Frankfurt-am-Mein, Suhrkamp, 1961. Bair, D. (1990), Samuel Beckett: una biografia, traduzione di Marco Papi, Milano, Garzanti. Barron, A. (2017), Against Reason. Schopenhauer, Beckett and the aesthetics of irreducibility, Stuttgart, Ibidem Verlag. Beckett, S. (1983), Disjecta: miscellaneous writings and a dramatic fragment, foreword by Ruby Cohn, Calder, London. Traduzione italiana di Aldo Tagliaferro: Disiecta: scritti sparsi e un frammento drammatico, Milano, Egea, 1991. Beckett, S. (2004), Proust [1931], traduzione di Piero Pagliano, Milano, SE. Beckett, S. (2009), Letters of Samuel Beckett 1929-1989, a cura di M. Dow Fehsenfeld e L. Overbeck, Cambridge, Cambridge University Press, 4 vol. Beckett, S. (2017), Lettere, I, a cura di F. Cavagnoli, traduzione di M. Bocchiola e L. Marcello Pignataro, Milano, Adelphi. Beretta Anguissola, A. (1971), Storia, scienza e società in Proust, «Paragone», n. 260, ottobre; il saggio è ora ripreso in Le Città dell’ombra, Roma, Bulzoni, 1979, volume che raccoglie altri due saggi proustiani. Beretta Anguissola, A. (1976), Proust inattuale, Roma, Bulzoni. Cronin A. (1996), Samuel Beckett, the last modernist, London, Harper Collins Ltd. Curtius, E.R. (1985), Marcel Proust, traduzione di L. Ritter Santini, Il Mulino, Bologna. De Sanctis, Fr. (1958), Storia della Letteratura italiana I, Bari, Laterza. Di Giacomo, G. (1999), Beckett: la vita irrappresentabile, in G. Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza, 218-227. Di Giacomo, G. (2009), Il silenzio, il vuoto e la fine della rappresentazione, in Beckett ultimo atto, a cura di R. Colombo e G. Di Giacomo, Milano, Albo Versorio, 13-26. Feuillerat, A. (1934), Comment Marcel Proust a composé son roman, Genève, Droz. Henry, A. (1988), La Réception de Schopenhauer en France, in Schopenhauer. New Essays in Honor of his 200th Birthday, Lewiston, N.Y., E. Mellon Press. Henry, A. (1983), Théories pour une esthétique, Paris, Klincksieck. Lane, R. (2002), Beckett and Nietzsche: the eternal headache, in R. Lane, Beckett and philosophy, Basingstoke-New York, Palgrave. Moorjani, A. (1996), Mourning. Schopenhauer and Beckett’s art of shadows in Beckett on and on, a cura di L. Oppenheim and M. Buning, New York, Madison, 83-101. O’Hara, J.D. (1988), Beckett’s schopenhauerian reading of Proust: the will as whirled in re-presentation, in Schopenhauer. New Essays in Honor of his 200th Birthday, a cura di E. von der Luft, Queenston (Ontario), Mellen House, 273-292. Pinter, H. (1987), Proust. Una sceneggiatura, Torino, Einaudi. Pothast, U. (2008), The Metaphysical Vision. Arthur Schopenhauer’s Philosophy of Art and Life and Samuel Beckett’s own way to make use of it, New York, Peter Lang. Proust, M. 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Si ringraziano inoltre gli editori SE, Adelphi ed Egea per avere reso disponibili le traduzioni italiane di alcune opere di Samuel Beckett. Excerpts from Samuel Beckett’s ‘Marginal notes’ reproduced by kind permission of the Estate of Samuel Beckett c/o Rosica Colin Limited, London and of the Beckett International Foundation (University of Reading). 2 Si tratta di un’aggiunta pubblicata per la prima volta nell’edizione postuma curata da Paul Deussen nel 1913 (Schopenhauer 1983, § 156, 392). 3 E poi una terza volta nel 1932. 4 Osservazione interessante: evidentemente nel 1929-30 la filosofia di Schopenhauer, che aveva profondamente impregnato di sé le visioni del mondo che erano state alla base del decadentismo e del simbolismo, era ormai “fuori moda” per i giovani aspiranti intellettuali, stranieri o francesi che popolavano la rive gauche. Chi leggeva Schopenhauer rischiava di essere considerato un troglodita. Del resto, l’epoca aurea dello schopenhauerismo era già finita quando Proust, nel 1908-09 (secondo la “vulgata”; più probabilmente nel 1906), cominciò a progettare concretamente la Recherche. Per questo aspetto Proust e Beckett sono stati entrambi degli “attardati”. Felix culpa!, potremmo dire, parafrasando l’Exultet. 5 L’edizione inglese 2009 di questa scelta della corrispondenza di Beckett è in quattro volumi: Letters of Samuel Beckett, a cura di Martha Dow Fehsenfeld e Lois Overbeck, Cambridge University Press, Cambridge, 2009, 33. In alcuni casi introduco qualche modifica nella peraltro ottima traduzione italiana (in corso di pubblicazione) per essere più vicino all’originale. Sul rapporto tra Beckett e Schopenhauer meritano una segnalazione alcuni studi interessanti: O’Hara 1988, 273-292; Moorjani 1996, 83-101; Pothast 2008; Tonning 2011, V-1, 19-44; Barron 2017. 6 Al filosofo è attribuita la celebre frase: «Chi non ha mai avuto un cane non sa cosa significhi essere amato». 7 Beckett ha donato all’Università inglese di Reading molti dei suoi libri e manoscritti, tra cui l’edizione in 16 volumi della Recherche da lui letta e annotata per scrivere il Proust. Il primo volume delle Jeunes Filles en fleurs è andato perduto. Gli studiosi di quell’Università, in collaborazione con il Center for Manuscript Genetics dell’Università di Anversa, in Belgio, hanno creato un sito Internet (Beckett Digital Project) nel quale, senza bisogno di attraversare la Manica, è possibile consultare tutte le pagine in cui vi siano dei commenti al margine o anche delle semplici sottolineature. 8 Cito dalla più recente traduzione di P. Pagliano perché quella “antica” di C. Gallone per Sugar &SugarCo contiene parecchi errori, alcuni dei quali memorabili. D’ora in poi, i riferimenti a quest’opera saranno indicati direttamente nel testo, con il numero di pagina tra parentesi. 9 Su Beckett e Nietzsche si può vedere, tra l’altro, Lane 2002, 166-175. 10 Ebbe su di me un forte influsso ai tempi (1972-1976) in cui scrivevo prima la mia tesi di laurea intitolata Storia, scienza e società in Proust, e poi il Proust inattuale (1976). 11 È singolare il fatto che nell’edizione inglese e in quella francese il frammento di verso di Leopardi «… E fango è il mondo» faccia bella mostra di sé come exergo dell’intero saggio, mentre nelle due traduzioni italiane (SugarCo e SE) è stato eliminato, forse per eccessivo zelo antisovranista. 12 Alle pagine 41, 54, 56. Sono citati versi tratti dal Convivio e dal decimo canto del Purgatorio. 13 Beckett cita a p. 56 una frase di De Sanctis (1958, 170) riferita a Dante nel capitolo VII della Storia della Letteratura italiana: «Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla». 14 È criticata l’interpretazione dannunziana della Tempesta di Giorgione, nel Fuoco (p. 63). 15 Cfr. la lettera scritta in tedesco ad Axel Kaun il 9 luglio 1937, in Lettere, cit., pp. 369-373. 16 Il concetto critico di «impedimento» è elaborato da Beckett a proposito della pittura di due suoi amici, i fratelli olandesi Geer e Bram van Velde, in alcuni saggi raccolti in Disjiecta: miscellaneous writings and a dramatic fragment, foreword by Ruby Cohn, Calder, London, 1983. Traduzione italiana di Aldo Tagliaferro: Disiecta: scritti sparsi e un frammento drammatico, Milano, Egea, 1991. È stato poi applicato da G. Di Giacomo all’interpretazione dei testi dello stesso Beckett (Di Giacomo 1999, 218-227; 2009, 13-26). 17 Poiché fino ad oggi è stato pubblicato soltanto il primo volume della traduzione italiana delle Letters, per gli altri volumi cito e traduco dall’edizione inglese: Letters of Samuel Beckett, III, cit., p. 377, lettera del 21 novembre 1960. 18 Non vi manca però una critica piuttosto severa e, secondo me, poco fondata. A suo parere, nelle pagine su Parigi durante la guerra, Proust «cessa di essere un artista e alza la sua voce con la plebe, la folla, la feccia, la canaglia» (p. 48). Credo che ci sia stato un equivoco: Beckett ha pensato che le opinioni molto patriottiche e scioviniste del Narratore rispecchiassero al 100% le idee dello scrittore, mentre, a mio parere, questi si identificava maggiormente nel punto di vista “sopra le parti” del barone di Charlus che funge quasi da suo portavoce. Penso che Beckett avrebbe cambiato idea se avesse potuto leggere la bellissima lettera di Proust a Daniel Halévy del 19 luglio 1919. 19 Giova ripetere che Beckett leggeva Proust nell’edizione in sedici volumi pubblicata dalla casa editrice della «Nouvelle Revue française», nella quale Le Temps retrouvé occupa gli ultimi due volumi. Nel primo ci sono il soggiorno a Tansonville, la malattia del Narratore, le distruzioni della guerra e le gesta e opinioni di Charlus. Il secondo comincia con l’arrivo del Narratore alla matinée della principessa di Guermantes e con la memoria involontaria che fa risorgere Venezia. 20 Cfr. la p. 106 nella traduzione italiana citata. In un certo senso, non sarebbe del tutto inesatto dire che il Beckett delle lettere agli amici tende a dividere la Recherche in cose belle e cose brutte. Applica cioè a Proust il metodo usato da Feuillerat nel suo noto libro Comment Marcel Proust a composé son roman (1934), metodo da Beckett deprecato nell’articolo Proust a pezzi, in Disiecta, 1991, 84-87. 21 Letters of Samuel Beckett, II, cit., p. 462. È interessante la risposta su Kafka. Beckett scrive di averne letto solo alcuni racconti brevi e i tre quarti de Il Castello. Confessa che, leggendo Kafka, si sente troppo a casa sua («chez moi») e proprio questo gli impedisce di continuare. «Mi ha infastidito – aggiunge – l’aspetto imperturbabile del suo modo di procedere. Diffido dei disastri che si lasciano registrare come un bilancio» (ibidem). 22 Lettera a McGreevy del 3 febbraio 1931, da Londra (Lettere, cit., p. 65). 23 Lettera allo stesso dell’11 marzo 1931. 24 La sua volontà è stata rispettata fino alla morte. La prima edizione francese del Proust è infatti del 1990. Il divieto valeva anche per l’Italia dove si era fatto avanti Einaudi. Non so se l’edizione Sugar del 1962 sia stata autorizzata. |